Si è conclusa ICAR 2020 – Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, la Conferenza Italiana su AIDS e Ricerca Antivirale, con un messaggio chiaro: attenzione ai pazienti fragili e con diagnosi tardiva
I pazienti fragili: chi sono? – Durante la conferenza è stata dedicata grande attenzione ai soggetti più complessi e fragili, importante componente della popolazione con HIV. Chi sono, lo riassume Cristina Mussini, Professore Ordinario di Malattie Infettive presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e co-presidente del Congresso. “I pazienti che hanno contratto l’infezione da HIV stanno invecchiando ed è molto importante considerare le diverse co-morbosità al momento di valutare la terapia antiretrovirale, non soltanto per le interazioni farmacologiche, ma anche per evitare di sommare effetti collaterali simili. L’attiva partecipazione al convegno della community ha aiutato a far emergere problematiche sociali ed etiche scarsamente considerate in altri ambiti, come quelle della popolazione transgender, o delle donne. Anche in diversi altri soggetti il decorso dell’infezione è più complesso, come nei pazienti con presentazione tardiva (esempio: gli immigrati, che tendono ad una minore aderenza ed al rischio di perdita al follow-up), oltre che negli adolescenti e giovani adulti che hanno acquisito l’infezione per via materna. Inoltre, oggi, l’infezione da COVID-19 ha un importante impatto negativo su tutta la cascata della cura dell’infezione da HIV, a partire dalla prevenzione, dal test e dalla PrEP che, nonostante i recenti progressi, in Italia, contrariamente agli altri Paesi europei, non è ancora rimborsabile”.
Donne e HIV: Un maggiore rischio di infezione, spesso ignorato – Recenti studi internazionali sull’HIV si sono focalizzati anche sulle differenze di genere, rilevando una serie di specificità che sembrano caratterizzare le donne, soggetti considerabili fragili dal punto di vista sia dell’acquisizione dell’infezione da HIV, sia della sua progressione, tanto da costituire nel mondo oltre la metà delle persone infette, nonostante invece negli studi clinici non vengano rappresentate in modo soddisfacente.
“Un elemento caratterizzante della donna è il rischio di acquisizione, per caratteristiche specifiche dell’apparato genitale femminile, che in via definitiva possono favorire la possibilità di contrarre l’infezione”. Lo evidenzia Giulia Marchetti, Professore Associato di Malattie Infettive all’Università di Milano, Ospedale San Paolo. “La letteratura scientifica conferma questa tesi sulla base di due elementi: anzitutto, l’infiammazione a livello genitale femminile determina anche un aumento delle cellule che possono essere infettate da HIV; inoltre, studi su biopsie della cervice uterina, hanno dimostrato l’aumentata espressione di alcuni co-recettori dell’HIV sulle cellule della mucosa genitale”.
“Negli ultimi anni, è stato studiato molto il microbioma, quell’insieme di batteri normalmente presenti nel nostro organismo in molteplici sedi, che influenza sia le situazioni di benessere, sia quelle di malattia. Il microbioma vaginale ha effetti sulla probabilità di venire infettati e questo spiega come le donne abbiano elementi di maggiore vulnerabilità per le caratteristiche biologiche dell’apparato genitale femminile, in termini di infiammazione, cioè di aumento di cellule infiammatorie che possono essere infettate ed in termini di microbioma che in alcune tipologie sembra favorire la trasmissione dell’infezione. Tutto questo determina conseguenze sulla prevenzione, che non riguardano la PrEP che è per via orale, ma che riguardano invece i vaginal rings, intrisi di farmaci antiretrovirali, che potrebbero risultare meno efficaci, in quanto influenzati sia dalle specifiche biologiche, sia dal microbioma. In questo casi, alcuni germi che sostengono la disbiosi vaginale riescono a metabolizzare i farmaci antivirali rilasciati dagli anelli vaginali, riducendone così la biodisponibilità”.
Le donne e l’AIDS – Riguarda in particolare le donne la diversa evoluzione della malattia. “Nelle prime fase dell’infezione, le donne sembrerebbero avere delle cariche virali di HIV più basse rispetto agli uomini: un dato sostanzialmente positivo in apparenza, perché questo non implica un minore sviluppo della malattia, come si potrebbe supporre. Nelle donne, pur con una carica virale più bassa all’inizio dell’infezione, durante la fase cronica il sistema si attiva maggiormente. In particolare, aumentano i sottotipi cellulari che producono interferone, citochina in grado di esplicare un duplice effetto sull’infezione da HIV: un iniziale maggiore controllo della replicazione virale, seguito però da un contributo alla progressione del danno immunologico. Questo è il dato più forte: nelle fasi iniziali dell’infezione e prima del trattamento antivirale, le donne hanno meno carica virale, che si accompagna però ad una maggiore produzione di interferone e di attivazione immunitaria, la quale tuttavia nelle fasi croniche dell’infezione può portare ad una progressione di malattia più rapida. Analogamente, un assetto infiammatorio più elevato nelle donne si associa ad una maggiore probabilità di sviluppare patologie associate all’infezione da HIV: cardiovascolari (aterosclerosi precoce, infarto), ossee (osteoporosi, osteopenia), ginecologiche (menopausa precoce, ridotta funzionalità ovarica)”.