Il Premio Nobel per la Medicina 2020 è stato assegnato a Harvey J. Alter, Charles M. Rice e Michael Houghton per la scoperta del virus dell’epatite C. Si tratta di un forte stimolo ed impulso per eradicare l’epatite C che, secondo stime recenti, negli ultimi anni ha conteggiato 70 milioni di casi nel mondo e 400mila decessi all’anno, un dato forse persino sottostimato. L’epatite da virus C è una delle cause più comuni di trapianto di fegato e la sua scoperta ha innescato un processo fruttuoso, culminato oggi con la disponibilità dei nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (DAA), che permettono di eradicare il virus in maniera definitiva, in tempi rapidi e senza effetti collaterali. Ancora prima dei trattamenti, però, devono essere identificati i pazienti affetti dal virus, spesso non consapevoli: il cosiddetto “sommerso”, che si stima ammonti ad oltre 300mila soggetti, appartenenti alla cosiddetta “key population”, la componente più fragile della società (detenuti, tossicodipendenti, migranti, senzatetto).
L’importanza di intervenire per tempo nella cura dell’epatite C è data dalle conseguenze, anche letali, che il virus può provocare nell’organismo. “L’HCV si associa nel 70-80% dei casi ad almeno una co-morbidità – sottolinea Luigi Elio Adinolfi, Professore Ordinario di Medicina Interna all’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” – I pazienti con HCV hanno una ridotta aspettativa di vita per l’incremento della mortalità per cause sia epatiche, sia extraepatiche. Il virus dell’epatite C, infatti, oltre a causare epatite cronica, cirrosi ed epatocarcinoma, è responsabile di patologie extraepatiche come crioglobulinemia, diabete, arteriosclerosi, infarto, scompenso cardiaco, ictus ischemico, patologie renale e neuro-psichiatriche. Intervenire efficacemente con i nuovi farmaci eliminando l’infezione da HCV, può generare un miglioramento del danno epatico e delle co-morbidità, oltre che ridurre l’incidenza di nuove malattie extraepatiche. E’ stato recentemente dimostrato che l’eliminazione dell’infezione da HCV riduce l’aterosclerosi carotidea, migliora il controllo del diabete e la funzione renale. Inoltre, l’eliminazione del virus previene l’insorgenza di un caso di infarto o ictus cerebrale ogni 50-60 pazienti trattati ed un caso di diabete ogni 15-20 pazienti trattati. In breve, eliminare l’HCV comporta il miglioramento della qualità della vita e riduce il rischio di mortalità e morbilità per malattie epatiche ed extraepatiche”.
Lo scenario attuale – La situazione attuale non favorisce un intervento rapido. “Durante il lockdown, l’epidemia da COVID-19 ha richiamato tutte le attenzioni, distogliendole da altre patologie anche gravi – spiega Marcello Persico, Professore Ordinario di Medicina Interna, Dipartimento di Medicina e Chirurgia Università di Salerno – Ciò è avvenuto anzitutto per le limitazioni poste nell’accesso alle strutture sanitarie; inoltre, gli stessi pazienti ne evitavano la frequentazione per paura del contagio. Nella seconda fase c’è stato un recupero, ma è rimasto un problema di valutazione specifica dei pazienti epatopatici. Pertanto, l’Italia ha rallentato la marcia verso l’ambizioso obiettivo di riduzione del 90% dell’infezione da HCV e del 65% della mortalità HCV-correlata. La COVID-19 non è più grave dell’epatite C: è sicuramente una malattia molto pericolosa e talvolta letale, ma dall’altra parte abbiamo una malattia cronica che nel tempo può degenerare in epatocarcinoma, cirrosi o favorire altre malattie extraepatiche. Il danno è anche economico, perché l’eliminazione dell’Epatite C permetterebbe di evitare i trattamenti per le suddette complicazioni”.