Sanità Penitenziaria – La salute delle donne nelle carceri

Agorà Penitenziaria 2021: XXII Congresso Nazionale della SIMSPe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria)

Il sistema carcerario è estremamente complesso, solo considerando che ogni anno vi transitano oltre 100.000 persone. Il COVID-19 l’ha messo a dura prova, ma, nonostante i timori iniziali, non ha provocato conseguenze significative, inducendo a rifocalizzare l’attenzione su altre malattie, in particolare mentali e infettive.

Al 31 Gennaio 2021 la popolazione femminile nelle carceri costituiva il 4,2% di quella complessiva, pari a 2.250 unità totali. Una componente minoritaria, ma in crescita e soprattutto con numeri più elevati degli uomini riguardo alle patologie. È quanto è emerso da uno studio ancora in corso, i cui risultati preliminari sono stati presentati in occasione dell’Agorà Penitenziaria 2021 – XXII Congresso Nazionale della SIMSPe.

Donne in carcere: i numeri dell’epatite C – ROSE (Rete dOnne SimspE) ha condotto uno studio sulle infezioni da HIV e HCV in donne detenute in diverse carceri italiane. ROSE è un network genere-specifico di SIMSPe sulla salute delle donne carcerate, coordinato da Elena Rastrelli. Hanno preso parte a questo studio 5 istituti penitenziari di 4 diverse regioni, corrispondenti al 10% della popolazione femminile detenuta. I risultati, ancora preliminari, sono i più significativi mai prodotti a livello di popolazione femminile nelle carceri, come di seguito dettagliato.

Elena Rastrelli, UOC Medicina Protetta-Malattie Infettive, Ospedale Belcolle, Viterbo.

Per quanto riguarda l’epatite C, in accordo con i dati del Ministero della Salute, le donne incarcerate hanno probabilità doppia rispetto agli uomini e 14 volte maggiore rispetto alla popolazione generale, di contrarre l’infezione. Le donne rappresentano una popolazione complessa da raggiungere, sparsa su tutto il territorio nazionale e spesso legata a storie di tossicodipendenza e prostituzione.

Da Novembre 2020, sono state ammesse allo studio 156 donne detenute. Di queste, 89 (il 57%) sono italiane (età media: 41 anni); 28 di loro (il 17,9%) facevano uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa. Su 134 è stato effettuato uno screening con l’innovativo test salivare per l’HCV, mentre per le altre è stato fatto per via endovenosa. I dati emersi sono stati eloquenti: la siero-prevalenza di HCV ha riguardato il 20,5%, una cifra leggermente superiore rispetto alla prevalenza riportata nella letteratura internazionale più recente, nonché di due volte superiore rispetto al 10,4% del genere maschile. Inoltre, le donne avevano un’infezione attiva in oltre il 50% dei casi.

Considerato che la maggior parte delle pazienti risultate positive è stata colta di sorpresa, è evidente la necessità di un intervento mirato sulla popolazione femminile delle carceri, tanto più che attualmente per l’epatite C esistono terapie in grado di eradicare definitivamente il virus in poche settimane e senza effetti collaterali, come ricorda Vito Fiore, Infettivologo presso l’Unità Operativa di Malattie Infettive e Tropicali, di Sassari. Un altro dato interessante riguarda i pazienti co-infetti. Su 84 detenuti maschi trattati con il progetto di microeradicazione dell’HCV, solo 3 erano positivi anche all’HIV. Tra le donne trattate nell’ambito di questo progetto, invece, quelle positive anche al virus che causa l’AIDS erano ben il 25%. Inoltre, se tra gli uomini non si sono osservati casi di epatite B, tra le donne ben 5 (il 21%), erano portatrici anche di questo virus. E’ possibile dedurre che in carcere le donne sono più esposte degli uomini alle co-infezioni.

Sergio Babudieri, Direttore Scientifico SIMSPe

Il numero limitato di donne detenute dovrebbe incentivare una maggiore attenzione, ulteriori servizi, una gestione sanitaria proattiva. Questo è quanto auspica Sergio Babudieri, Direttore Scientifico SIMSPe. In alcune carceri le donne sono poche decine di persone: in queste situazioni è possibile migliorare la sanità penitenziaria, intervenendo proattivamente ed evitando che sia la detenuta a chiedere aiuto, o ancor peggio commetta un gesto autolesionista.

Oltre alle malattie infettive, quelle psichiatriche rappresentano un importante problema di sanità penitenziaria. Mentre la diagnosi di malattia mentale è codificabile in modo standardizzato, il disagio mentale va differenziato. Questo è una chiara reazione all’arrivo in carcere, come risposta al difficile adattamento alla nuova condizione di vita. Occorre anche considerare i tossicodipendenti, chi è affetto da disturbi pregressi, chi è posto in un contesto difficile e inedito. E’ necessaria una distinzione tra malattia mentale (schizofrenia, o paranoia) e disagio: la prima esige il supporto specialistico e la terapia adeguata, il secondo è la risposta alla privazione della libertà (di per se’ uno stress gravissimo), da parte di una persona con problemi di base (depressione, tossicodipendenza…). Sono questi problemi a “fare più notizia”, perché danno luogo a maggiore aggressività, minore tolleranza alla frustrazione, alle regole, alla coabitazione forzata. Le due situazioni richiedono un trattamento chiaramente distinto, ciascuna con le rispettive modalità.

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